martedì 10 novembre 2015

Caro psicologo, diamoci del Tu!

Sto per trattare un argomento che mi sta molto a cuore e che desidero approfondire per chiunque ne fosse interessato.
Mi è capitato diverse volte di aver deluso le aspettative di pazienti o potenziali pazienti che si aspettavano e desideravano che ci dessimo del "tu" a causa della giovane età, della timidezza iniziale e del bisogno di sentirsi a proprio agio.
In tanti si aspettano questo in terapia, ovvero che lo psicologo abbia un approccio più confidenziale, e restano delusi quando non viene loro "consentito".

Quali fantasie e vissuti possono essere associati al "lei"? Perché in tanti psicologi la riteniamo una prassi utile?
Sono numerose le ragioni e di seguito accenno a qualche esempio.

Forse alcuni temono un'eccessiva distanza nella relazione con lo psicologo;
ad altri il "lei" evoca un vissuto di "anzianità", poiché notoriamente si associa all'atteggiamento rispettoso che una persona più giovane usa avere verso individui più grandi di età.
Proprio per tale ragione questi tendono a dare del tu quando lo psicologo ha la stessa età o è più giovane di loro, per esempio. 
Altri penseranno che la scelta del tu o del lei sia assolutamente indifferente, dunque “tanto vale dare del tu”.

Dal mio punto di vista dare del “lei” aiuta a mantenere la relazione con l’altro su un livello specifico: quello terapeutico, laddove uno dei membri chiede un aiuto per risolvere un malessere interiore o migliorare la propria qualità di vita e l’altro mette a disposizione il suo sapere per rispondere alla richiesta.
Ovviamente si tratta di una collaborazione tra i due, laddove il o i richiedenti si impegnano a lavorare su di sé cooperando con lo psicologo e riponendo fiducia nella relazione terapeutica.

A prescindere dall’età anagrafica dello psicologo, bisogna far sì che si creino le condizioni giuste per favorire la nascita di una relazione d’aiuto in cui i ruoli siano chiari e distinti.

Una persona che chiede di dare del tu potrebbe manifestare il desiderio inconscio di creare immediatamente una relazione intima ed amicale, riproponendo per esempio con il terapeuta le stesse modalità relazionali che ha con i propri cari. La suddetta, dunque, vedrebbe nello psicologo la figura “della figlia, della madre, del padre o dell’amica” rischiando, così facendo, di ripetere l’esperienza relazionale conosciuta (in tanti casi insoddisfacente o limitante) anziché vivere una relazione terapeutica che introduca elementi di novità e permetta di “sciogliere i nodi interiori”.

E’ proprio per tale ragione che il bisogno di cambiare “setting terapeutico” da parte del paziente per me diviene argomento di riflessione nell’ambito della psicoterapia: lavoro a partire da questo importante elemento. Il “setting” è appunto il contesto, l’ambiente, l’insieme di regole che sarebbe opportuno rispettare affinché la relazione tra due individui sconosciuti possa diventare “terapeutica".
La “questione del tu e del lei” in questo ambito non ha a che fare quindi con quella del dovuto "rispetto” o differenza di età, bensì con il “setting”; la difficoltà di aderire alle regole decise dall'esperto dev’essere motivo di approfondimento perché rivela aspetti profondi dell’individuo nella relazione con l’altro e con se stesso. 
Bisogna altresì aggiungere che l'eccezione fa la regola: vi sono casi in cui può essere addirittura più opportuno darsi del tu, come per esempio faccio con i bambini. La decisione spetta comunque allo psicologo, che ha un tipo di formazione specifica e che utilizza la sua esperienza e il suo modello di'intervento di riferimento per allacciare una relazione che sia terapeutica con una determinata persona, coppia o famiglia.

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